I soprannomi di Nardò

Anche izze

Nardò fa eccezione: non ha un epiteto con cui sono indicati i suoi abitanti. Sono tanti i soprannomi individuali, ma quello collettivo non c’è. Città antichissima e dalle complesse vicende storiche, seppe forse per questo incutere rispetto ed emanciparsi da epiteti e nomignoli. Ma se riuscì in questa impresa, fallì in quella di evitare le malelingue dei paesi vicini dove si gongolava che una città superba delle sue origini e dei suoi trascorsi fosse stata presa senza soverchio sforzo dai Saraceni. Tra le varie ipotesi su Nardò, infatti, c’è quella che ne attribuisce la fondazione ad Egizi e Assiri 3.500 anni prima di Cristo, e di ciò i Neritini hanno sempre menato vanto. Ma ciò nonostante, l’8 maggio 1255 ì Saraceni assediarono la città e la conquistarono. Dalla cattedrale tentarono di portar via anche la statua lignea del “Cristu gnoru” (il Cristo nero) per bruciarla. Il massimo dello sfregio, insomma, e in questa triste vicenda i perfidi vicini sguazzavano. La cosa non andava giù ai Neritini, che in questo modo subivano danno e beffa. E così nei secoli successivi provvidero a diffondere una controstoria: i Saraceni distrussero Nardò? Ma neanche per sogno, anzi essi furono scacciati da un’ortica, un’ortica di Nardò. E allora vale la pena raccontare questa controstoria.

Siamo intorno alla fine del tredicesimo secolo. In quel periodo a governare la città era il conte Tommaso Gentìle, fedele di Federico II, che i Neritini scacciarono dopo che l’imperatore fu scomunicato. Manfredi, figlio naturale di Federico, alleatosi con i Saracenì, non solo rimise il padre sul trono, ma volle anche punire le città ribelli, fra cui Nardò, che fu subito assediata dai Saraceni, appunto.

Questo l’antefatto storico. Da qui in poi la fantasia. I musulmani giunsero, dunque, da Avetrana e prima di sferrare l’attacco si fermarono a ridosso delle mura per riposarsi dopo il lungo cammino. Accadde che uno degli assedianti, preso da tremende coliche, fu costretto ad appartarsi in una raduna erbosa per dare un po’ di requie al suo martoriato intestino. Così abbassatisi i pantaloni , si accovacciò, ma si rialzò subito mandando un urlo e grattandosi tra salti e contorcimenti: era andato a poggiare le natiche nude su un fitto cespuglio di ortiche, pianta che egli non conosceva. La notizia si sparse subito nel campo degli assedianti, e con essa il panico. “Ci l’erve ponginu cusí”, dissero, “allora quiddhi ti Nardò cce nd’onu ffare?” (Se le erbe pungono ín questo modo, cosa devono farci allora quelli di Nardò?). Tolsero l’assedio e la città fu libera. Ma questa, s’è detto, è una controstoria messa in circolazione dagli abitanti di Nardò, perché i fatti andarono diversamente. E’ vero invece che in un angolo dell’incrocio tra le strade che portano a Leverano e ad Avetrana c’è un’edicola votiva dedicata alla “Madonna ti li Turchi”. I Turchi non c’entrano, c’entrano i Saraceni, quelli stessi che espugnarono davvero la città, ma c’entrano soprattutto i Neritini che hanno amplificato una leggenda. Gli invasori, dunque, erano a metà del saccheggio quando decisero di dare alle fiamme, per sfregio, la statua di legno del “Cristu gnoru”, cosi se la caricarono in spalla e la trascinarono fuori. All’uscita dalla cattedrale, la statua urtò contro il portale e si ruppe il dito mignolo della mano sinistra, dalla quale cominciò improvvisamente a sgorgare sangue. A quella vista i Saraceni, colpiti dal segno divino, lasciarono il saccheggio e fuggirono. Il “Cristu gnoru” fu riportato al suo posto e da allora è venerato nella cattedrale di Nardò. Affianco alla statua, in una nicchia dorata, c’è il moncherino del dito.

Alcuni soprannomi individuali

Anca ízza (gambe di capra), Anca ti jaddína (gambe di gallina), Anca ti tránita (gambe d’anatra), Aza la cota (alza la coda), Babba lu cchillu (così è chiamato dai contadini un tipo di serpente. Letteralmente l’espressione significa “incanta il tacchino”; qui il soprannome sta ad indicare una persona che ha poco credito, capace di incantare solamente i tacchini), Bampapasúli (brucia, fagioli), Batapánza (persona dal ventre prominente), Bobbo (da Bob, Roberto, per le arie da americano che si dava), Bombu (per i chili in più che aveva), Brusciascàsce (brucia e scassa), Cacafiche (caca fichi), Capu ti minuncéddha (la “minunceddha” è il cetriolo, quindi testa di cetriolo), Centubáci (donna dai facili costumi), Dindón (parola onomatopeica), Fulinédda (da <<fulinu>>, fulvo), Géniu (colui il quale dice di sapere tutto), Mangia zzóccule (mangia grossi topi), Minnacchiúta (dalle grandi tette), Mpízzala e ffuci (perché era solito dire “Infilala e scappa”), Ncaniddhàtu (tarlato), Orga ti I’óe (Olga, figlia di un venditore di uova), Orpe (volpe), Pirlangòi (molto alto), Qualáru (fabbricava boccali), Récchia gnóra (orecchio nero, per una voglia che aveva), Scapiciára (vendeva la “scapece”, pesce marinato), Sette córne (cornuto super), Siccáme (avaro), Spicamiscéla (spilungone), Tacchi e Minzetti (tacchi e mezza suola; riferito ad un calzolaio).